Dal 1999

EOP

La vita è movimento

di Anonimo Napoletano
Alan De Vita faceva l’osteopata nel suo studio di corso Vittorio Emanuele, indirizzo che dava ai pazienti e che corrispondeva ad un cancello all’ultimo piano di un palazzo aggrappato alle pendici della collina del Vomero, per cui quelli che si recavano da lui, per raggiungerlo dovevano scendere – a piedi o con l’ascensore – tre piani.
L’altra entrata, che lui usava più regolarmente, tre piani ancora più sotto, dava attraverso un antico portone su via Croci Santa Lucia al Monte, estrema propaggine dei Quartieri Spagnoli.
In quel momento stava rispondendo al telefono ad una potenziale paziente:
“Sì signora, curo solo con le mani”
“……”
“No signora, il fluido non lo tengo”.
Appese il ricevitore pensoso per l’ultima domanda della sua interlocutrice “… E allora come fate?”, comunque ben deciso a non farsi mettere di cattivo umore nonostante gli ultimi tre pazienti gli avessero dato buca. Si sarebbe rifatto nel pomeriggio con ben quattro prime visite.
Decise di scendere per sbrigare qualche piccola incombenza, prima di andare a pranzo, forse ce l’avrebbe fatta anche ad arrivare in via dei Tribunali a comprare un particolare lucido da scarpe rosso per pulire le sue derby di cuoio bulgaro.

scarpaScartò l’idea di farsi una canna, sporadica usanza residuo dei suoi trascorsi da fricchettone.
Il pomeriggio di lavoro si preannunciava intenso e tra le visite c’era quella di Luisa Langarotti di Cambiano, nobildonna piemontese da quarant’anni a Napoli, sua amica e proprietaria dell’appartamento che gli faceva da studio e abitazione. Quando fumava inevitabilmente prediligeva la tecnica cranio sacrale, ma una volta che aveva tenuto le mani sulla testa di Luisa per più di un minuto questa, girando su di lui gli occhi azzurrissimi e sorridendo, lo aveva apostrofato “Cosa fai carino? Se volevo farmi accarezzare la testa andavo dal parrucchiere”.
Luisa Langarotti aveva 77 anni ed era, nella sua dolcezza, impossibile a contraddire. Era stata una delle sue prime pazienti, poi amica, e gli concedeva l’uso di quell’appartamento – novanta metri quadri su due livelli – in cambio di un affitto quasi simbolico. Al primo livello oltre ad un ingresso sala d’attesa e ad un bagno c’era lo studio, dove una vetrata in stile liberty concedeva una spettacolare veduta su tutta Napoli ed il golfo. Il secondo livello ospitava una camera da letto, un altro bagno, un cucinino usato solo per il caffè del mattino ed una piccola stanza guardaroba, dove alloggiavano le oltre cento paia di scarpe – una delle sue manie – che puliva personalmente.
Altro privilegio di quell’amicizia era quello di essere regolarmente invitato alle cene, con cadenza più o meno settimanale, in cui Luisa esercitava il suo talento di mettere in armonia le persone più diverse, anche grazie a dei micidiali beveroni alcolici che eufemisticamente definiva aperitivi. Una delle ultime volte si era trovato a fianco un monsignore che, brillo fin dal primo round, raccontava barzellette divertentissime e di fronte Roberto Murolo, sublime esecutore di canzoni napoletane e virtuoso della chitarra.
Altro ospite quasi fisso era don Gennaro Anzalone, elegantissimo gentiluomo ottantenne – fino agli anni ’70 capo indiscusso del contrabbando di sigarette. “Poi me ne sono uscito, che è diventata tutta ‘na schifezza…”. Se sollecitato narrava di epici inseguimenti tra i suoi scafi e quelli della Finanza, come se fossero gare di motonautica. Alan – a cui Luisa aveva raccontato delle sere in cui Gennaro passava da Posillipo con il motoscafo per portarla a vedere la luna sui Faraglioni o dietro al castello Aragonese – era convinto che fossero stati amanti.
Uscito dal portone di S. Lucia al Monte, entrò nel dedalo di vicoli che si dipanava fino a via Toledo. Amava molto quella zona, dove viveva e lavorava da sei anni, ed era conosciuto da tutti come “o dottore e ll’ossa”. Qualcuno lo prendeva per straniero, anche per il nome di battesimo inusuale, che doveva alla passione per il western di suo padre, che aveva visto “IL cavaliere della valle solitaria” almeno cinquanta volte. Era arrivato a Napoli alla fine degli anni settanta, con un diploma in osteopatia preso in Francia, da Amorosi un paesino tra la provincia di Caserta e quella di Benevento, innamorato della città e deciso a rimanerci ed adesso – quasi a metà degli anni ’80 – si sentiva napoletano quanto Pasqualino, il barbiere che adesso lo chiamava dalla soglia della sua bottega. “Venite dottò, venite mò ca non ci sta nisciuno”. “Perché no – pensò, visto che erano diversi giorni che pensava di tagliarsi i capelli – basta che non ricomincia con la storia della cura…”. Ma, inesorabilmente, appena seduto ed imbardato da un candido telo “Dottò, ma che avimma fa co’ sta chierica – riferendosi all’area sul cucuzzolo in cui i capelli cominciavano a diradarsi – ‘a vulimm’ accumincià ‘sta cura?”.
L’avere resistito a tutti gli attacchi, le lusinghe, le minacce di una calvizie precoce da parte dell’omino in camice meritava un premio, per questo decise di andare a pranzo da donna Vincenza Pitirolla, che gestiva una tavola calda in via Speranzella, confidando nella buona sorte per trovare le sublimi braciole di cotiche o almeno un baccalà in cassuola. “Ciao Alàn, che ti mangi? – lo salutò il donnone sorridente il cui reggiseno, una volta che l’aveva visitata, aveva richiamato al nostro una coppia di spinnaker – tengo pasta e fagioli, sasiccia e friarielli, e le braciole di cotiche come ti piacciono a te, uva passa e pinoli”. Con una piroetta del cuore, Alan si accomodò al suo tavolo preferito, vicino alla cassa, così che Vincenza lo potesse interrogare, a scorno di ogni segreto professionale, sulle novità dei pazienti che anche lei conosceva, in pratica l’80 per cento della sua clientela. Cominciava: “Allora, all’avvocato Criscuolo c’è passato ‘o mal’e schiena? Quella è la moglie che gli da i tormenti…” continuava “…e il collo di don Saverio, non saranno le corna che gli pesano?” confermando sia una spiccata visione psicosomatica, che un’approfondita conoscenza dei fatti altrui. Uscito dal locale in una sorta di beatitudine post prandiale, si avviò verso Toledo, tentato dal pensiero di una sfogliatella da Scaturchio. Vinse la sua coscienza, che gli ricordò il suo giro vita che si era spostato di almeno un buco della cintura, e ripiegò su un caffè al Gambrinus.
Sulla strada del ritorno cominciò a pensare alle visite che lo attendevano. Una metà erano nuovi, di questi due glieli mandava un medico di base, suo grosso fornitore di pazienti, uno chi sa chi e l’ultimo glielo aveva raccomandato Salvatore Suarino. Lo aveva curato qualche anno prima – Suarino – per una sciatica violenta, e si ricordava della prima volta: era raro, nel ’79, vedere qualcuno tatuato, ed il pugnale su un polpaccio e la scritta “Amo i miei figli” sull’altro lo avevano lasciato basito. Comunque era andata bene, la sciatica era passata, ma il paziente era scomparso. Era ricomparso, a distanza di quasi cinque anni, tre settimane prima e, alla domanda “Ma che fine avete fatto” aveva risposto “Eh dottò, quegli schifosi dei pentiti…”.
E adesso gli mandava un paziente, tal Principio, il nome non lo aveva detto, che aveva insistito per venire come ultimo appuntamento, alle sette e mezzo. Il pomeriggio era passato veloce, Luisa lo aveva invitato per il martedì successivo, e adesso aspettava quest’ultimo appuntamento che si annunciò, con un quarto d’ora di ritardo, con uno scampanellio pressante. La persona che fece accomodare era a dir poco inquietante, non lo guardava negli occhi, parlava a voce bassa e con frasi smozzicate e fu un’impresa strappargli di bocca il motivo della visita. A completare il tutto, una volta spogliato, una lunga cicatrice un po’ slabbrata gli attraversava il torace, dalla spalla sinistra al fianco destro. “Coltello o rasoio?” si domandò Alan senza fare una piega, dandogli alla fine del trattamento un appuntamento per la settimana successiva.
Al momento di pagarlo, il tipo cacciò dalla tasca un rotolo di biglietti da centomila lire e ne appoggiò uno sulla scrivania “Se non tenete il resto non fa niente…” e, intascando distrattamente le ventimila che Alan gli porgeva continuò “Se io mò scendo invece di salire esco nei Quartieri?”
Era appena uscito dallo studio che un rumore improvviso, seguito da altri due dello stesso tipo – fece pensare ad Alan a Natale, ai ragazzini che sparavano i raudi, solo che era marzo. Subito dopo suonò la porta, aperta la quale comparve Principio che si teneva un fianco. “Nu’ sfaccimmo m’ha fatto. M’aspettava per le scale. Mi dovete medicare.” E levatosi il cappotto e la giacca rimase con una camicia su cui già si allargava una vistosa macchia rossa. Alan, che non aveva fatto il medico perché il sangue gli faceva impressione, si sentì mancare. “Né spicciatevi, lo tenete un poco di spirito e due bende? È una cosa di niente, chillo cornuto m’ha pigliato di striscio. E, per tramente, dove posso telefonare?” Alan, mentre tentava di organizzare una qualche reazione coerente, lo vide sedersi dietro la sua scrivania, alzare la cornetta e, fatto il numero “So’ Principio, m’hanno fatto, è stato quasi sicuramente chillo figlio e zoccola ‘ro Malommo. Mandatemi i guaglioni, tutti quanti, sto a S. Lucia al Monte, facite ampressa” “E voi, passatemi un po’ di spirito qua – levandosi la camicia – poi fasciatemi” “E questo è per lo scomodo – disse alla fine, tirando fuori dal rotolo qualche altro biglietto da centomila e lasciandolo cadere sulla scrivania – e scordatevi che sono stato qua e di tutto il resto…”.
Seconda puntata

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La mattina dopo tutto questo gli parve un sogno, che andò a sbiadire nei giorni successivi, anche perché in quel week end si stabilì in casa sua, ma più precisamente in camera da letto Susi, una procace rossa della zona vesuviana, che conosceva da poco e che tenne fede alle sue origini vulcaniche. Le rosse erano un’altra sua mania.
Fu così che con rinnovata fiducia nell’umanità e nella vita si apprestò ad affrontare quel lunedì e quella nuova settimana dove si incastonavano le serata di martedì – cena da Luisa – e venerdì jazz all’Otto Jazz Club. Il jazz era la sua terza mania. Susi se ne era andata da poco, non senza un ultimo round, così scese nello studio per scorrere l’agenda degli appuntamenti.
Il lunedì, per cominciare senza stress una nuova settimana, metteva le visite solo al pomeriggio. La prima metà della giornata era consacrata alla suprema arte del cazzeggio, di cui era maestro. Avrebbe potuto dedicarsi alle sue scarpe rimanendo in casa, o piuttosto arrivare finalmente ai Tribunali a scegliere nuovi lucidi, rimanendo in quella fantastica bottega il più a lungo possibile, solo per inebriarsi dell’odore del cuoio e delle cere. Poi passare un paio d’ore nella libreria a Ponte di Tappia e finalmente andare a pranzo, il dilemma donna Vincenza o pizzeria del Gallo non avrebbe turbato la condizione zen di non-fare, wu wei, in cui si accingeva ad entrare.
Sull’agenda le visite cominciavano alle tre ed un nome gli saltò agli occhi: Antonio Criscuolo, ahi… Era un giornalaio che aveva la sua edicola a via Montecalvario, ed era la persona con l’odore più sconcertante – “destabilizzante” pensava – che avesse sentito in vita sua. Non che fosse uno schifiltoso, anzi. Il suo olfatto, sviluppatissimo, apprezzava con curiosità odori corporei che altri avrebbero definito francamente puzze, ma Criscuolo… era arrivato a pensare che non fosse umano. Avrebbe dovuto arieggiare a lungo e usare Cuir, il deodorante per ambienti all’aroma di cuoio, che aveva comprato da L’Artisan Parfumeur l’ultima volta che era stato a Parigi.
Tra gli appuntamenti non c’erano, fortunatamente altri nomi degni di nota, anche se aveva scarsissima memoria per i nomi, e si aiutava con un sistema di schede, per ricordare i casi clinici, ma soprattutto per non incorrere in gaffes clamorose. Ah ecco una prima visita, Alfredo Liberatore “Chissà chi me lo manda?”. Non sapeva che era un nome che non avrebbe dimenticato. La persona che gli si presentò davanti quel pomeriggio era un azzimato sessantino vestito, pensò subito, come un impresario di pompe funebri. Ma, a parte l’abbigliamento rigorosamente du role, era un vago sentore di fiori appassiti che emanava a rafforzare l’idea cimiteriale.
“Allora, per che motivo siete da me?” era la prima domanda di prammatica.
“Per parlare…”
“Che sintomi avete?” di routine pure la seconda.
“Stongo assai preoccupato…”
C’era qualcosa di stonato, Alan alzò gli occhi e l’impressione di una stonatura si rinforzò tra il contrasto di un sorriso sormontato dalla riga sottile di un paio di baffetti grigi, parallela alla linea unita delle sopracciglia sopra ad uno sguardo duro “geometricamente gelido” – pensò.
“Stongo preoccupato per voi. La settimana scorsa è venuto da voi Ciro Principio “Ah, ecco il nome…”. Quando è uscito ha avuto un piccolo incidente per le scale “All’anima dell’incidente…”. È ritornato da voi ed ha fatto una telefonata, vogliamo sapere se ha fatto qualche nome.”
“Io non mi ricordo – balbettò, ritornando immediatamente il bambino che non sapeva bene la lezione, interrogato dalla maestra – perdeva sangue, l’ho disinfettato e fasciato ed è andato via. Non ha preso un altro appuntamento.”
“Lo prendo io, un altro appuntamento. Quando facite studio – si impadronì dell’agenda – domani? Vengo alle tre, e pure mercoledì, mò mi segno, e giovedì e tutt’è iuorne fino a che non vi ricordate… Avete fatto bene a non chiamare la polizia, mò avita fa n’ata cosa iusta.”
E se ne andò senza salutare, lasciandolo a chiedersi perché non avesse avvisato l’ordine pubblico di quello che era successo. Avrebbe potuto chiamare il commissario Scognamiglio, suo vecchio paziente ed amico, ma il pensiero non lo aveva neanche sfiorato. In qualche modo portò a termine quel pomeriggio di lavoro, ma tutta la paura e la preoccupazione gli salirono verso sera, consegnandolo poi ad una notte senza sonno.

padrinoTerza puntata
Il martedì pomeriggio arrivò inesorabile, e con lui Liberatore.
“Allora?”
“Sessanta minuti…” ma lo pensò solamente. “Io già vi ho detto ieri – invece rispose rifugiandosi nel tono che usava per spiegare ai pazienti – che non vi posso aiutare, perche il signor Principio non ha fatto nessun nome, o se lo ha fatto non me lo ricordo, non l’ho sentito.”
“E invece io posso aiutare a voi, se solo fate un piccolo sforzo…”
“E perché, avrei bisogno di aiuto?”
“Tutte quante ne teneno bisogno, si Pascale Terranera perde ‘a pacienza. Ci vediamo domani alla stessa ora. M’arraccumanno, facite uno sforzo.”
Pasquale Terranera, chi altro era?
Che fare ma, soprattutto, come levarsi di torno l’incomodo appuntamento delle tre?
Anche quel pomeriggio lavorò con il pilota automatico, preso dal turbine di quelle idee e quegli eventi e quasi si dimenticava della cena da Luisa che gli ritornò di colpo in mente con un nome, Gennaro Anzalone. Era a lui che avrebbe chiesto consiglio.
Il vecchio contrabbandiere lo ascoltò con attenzione, nel dopo cena, scuotendo al testa al nome di Alfredo Liberatore e rabbuiandosi ulteriormente sentendo quello di Terranera.
“Guagliò, stai inguaiato, quello Liberatore è veramente uno schiattamorto, solo che molti clienti delle sue pompe funebri li procurano proprio lui e i suoi uomini. Come si dice, dal produttore al consumatore. E Terranera… ‘stu fetente arrivò già ai tempi miei, droga, puttane, pure ‘e criature se venneva, o chiammano O Malomm’, e Principio, diciamo, è un suo concorrente. Da qualche anno sono in pace, ma Terranera lo tiene in ganna, puntato, e l’agguato sulle scale è opera sua. Solo che non è andato bene, e Pascale Terranera vuole sapere se Principio sospetta di lui, per stare aparato.”
“O Malomm’! Questo ha detto Principio al telefono…”
“Perfetto, Ciro Principio sa, o ha forti sospetti su chi è. Una guerra sta per cominciare e tu stai ‘mmiezo.”
“Don Gennà, che posso fare?”
“Se fossi in te mi farei una bella vacanza, lontano da Napoli. Ci devi andare a Parigi…?”
Queste ultime parole rimuginava, mentre a piedi saliva per il Corso.
Si era fatto lasciare dal taxi abbastanza prima di casa sua, aveva bisogno di aria e di pensare, e camminare lo aiutava. Il suo cuore scartò quando si accorse dell’auto che lo affiancava. “Dottò salite” sentì dalla portiera che si apriva e chinandosi scorse il commissario Scognamiglio. Rinfrancato montò. “Scusatemi l’ora ed il modo, ma avevo bisogno di chiedervi alcune cose, con urgenza e senza dare troppo nell’occhio. Sappiamo che la scorsa settimana è stato sparato sulle vostre scale Ciro Principio, e che questa settimana, ieri e l’altroieri, avete ricevuto Alfredo Liberatore.
Prima domanda: come mai non avete denunciato l’accaduto?
Seconda domanda: che vuole da voi Liberatore?
Terza domanda: sorvolando sul fatto che potreste essere incriminato per reticenza e rimarcando invece il fatto che siete nei guai, perché non vi siete rivolto a me?”
Alla prima e alla terza domanda non sapeva rispondere, così cominciò dalla seconda.
“Vuole sapere se Principio ha fatto qualche nome quando ha chiamato i suoi”
“E lo ha fatto?”
“O Malomm’ “
“Pasquale Terranera, per l’appunto, che adesso vuole sapere se Principio sospetta di lui”
“E perché?”
“Perché, nel caso, deve colpire per primo, o altrimenti può aspettare il consiglio dei capi”
“Il consiglio…?”
“Fino a dieci anni fa la guerra tra i vari clan divampava, c’erano morti ogni giorno e non si facevano affari. Fu uno dei capi più potenti, Michele Spavone, a riportare la pace e l’accordo che fu siglato ancora non è mai stato rotto. Ogni disaccordo viene portato davanti al consiglio e viene risolto senza spargimenti di sangue, o quasi. Adesso si rischia una nuova guerra e noi dobbiamo fare di tutto per evitarla.”
“Dobbiamo…?”
“Liberatore tornerà alla carica e voi gli direte che avete sentito Principio fare il nome di Tore ‘a recchia”
“E chi è quest’altro, ‘a recchia?”
“E’ uno dei capi più potenti – ‘a recchia non si riferisce a particolari preferenze sessuali, ma è perché ha un solo orecchio, l’altro lo ha perso durante una rissa in carcere – e Terranera reputerà che Principio ci penserà due volte prima di fare guerra. Noi nel frattempo abbiamo un infiltrato nella banda di Principio che sta cercando di sviare i suoi sospetti. Se tutto va come deve andare, il consiglio si terrà a breve, noi arriviamo e arrestiamo a tutti quanti. Mi raccomando dottò, stiamo in mano vostra.”
E invece Liberatore non si presentò quel mercoledì, al suo posto un messaggio sulla segreteria telefonica.
“Impegni mi tengono fuori Napoli, passo da voi lunedì alla solita ora, così avete un po’ di tempo per finire di ricordarvi…”.

“Dottò, ma perché tengo sempre male al collo, è freddezza?”
“Signora, il collo vi fa male, perché lavora troppo al posto della zona dorsale, che è troppo rigida…”
“Aah, ho capito, è un nervo accavallato”

Quel venerdì di studio era scivolato senza particolari sussulti e già pregustava la serata di musica.

Ultima puntata

Abbe Lane on Stage Doing RhumbaSuonò la porta. Si maledisse per essere andato ad aprire, quando si trovò davanti Principio.
“Solo due parole”
“Accomodatevi”
“A Liberatore dovete fare un solo nome: Luigino ‘a scigna. Buonaserata”

Al club c’era già gente, i musicisti accordavano. L’ultimo incontro gli aveva spento l’appetito, ed al banco ordinò un Campari. ‘A scigna, chi era ancora questa scimmia? Decise di sentire al più presto il suo amico commissario. Cominciava il concerto. “Una preghiera…” Più che sentire le parole si girò per la mano poggiata sul suo braccio. Fissò un volto anonimo che ripeté “Una preghiera da parte di don Mimì Spavone. Potete seguirmi un attimo fuori?”
Nell’auto il capo dei capi lo accolse con due parole:
“Franchino ‘a belva…”
“…?”
“E’ quello che direte a Liberatore. Buonanotte”

“A quanto mi dite – disse il commissario – qua ognuno sta cercando di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Voi fate come eravamo rimasti…”
Ma il lunedì alle tre, davanti a Liberatore, non riuscì mai a spiegarsi perché si trovò a dire:
“Mentre cercavo l’occorrente per medicarlo, Principio stette a lungo al telefono, e pronunciò diversi nomi, in particolare me ne ricordo tre: Tore ‘a recchia, Luigino ‘a scigna, Franchino ‘a belva.
Liberatore lo fissò a lungo, lo sguardo ancora più freddo e geometrico del solito. Poi, senza salutare, girò le spalle ed uscì.
Il Mattino di due giorni dopo titolava “STRAGE DI CAMORRA. Decapitata la malavita organizzata. In un ristorante di Ottaviano, alle pendici del Vesuvio una riunione di capi delle cosche è finita in sparatoria. La polizia ha arrestato i superstiti.” Tra i nomi dei morti spiccavano quello di Spavone, Principio, Terranera.
“Avete visto che massacro, non abbiamo fatto in tempo ad arrivare, che già si erano ammazzati a decine – fece Scognamiglio, che stavolta aveva convocato Alan nel suo uffici – chissà che è successo? Mò starete tranquillo e pure noi. ‘Sti fetenti prima di riorganizzarsi ci vorrà del tempo”.
“Commissà, se permettete me ne vado – il nostro aveva Susi che lo aspettava a casa ed aveva fretta di concludere un discorso che aveva interrotto per recarsi in questura.
La mattinata del lunedì seguente era stata eccezionalmente proficua e si era conclusa con l’acquisto di un magnifico paio di Church trovate in saldi in un outlet. Il mondo era bello, la vita gli sorrideva e si accingeva ad un pomeriggio di lavoro.
Fu con spirito leggero che andò ad aprire la porta, sollecitato dal suono del campanello. Si trovò davanti Liberatore.
“Dottò, avete visto che tragedia…io ci stavo, pareva ‘a seconda guerra mondiale. Per salvarmi mi sono nascosto dentro un armadietto e ci sono rimasto piegato a libretto per quasi dieci ore. Manco la polizia m’ha trovato. Ho fatto voto’a Maronna do Carmine che se mi salvavo, ‘a fernevo c’a malavita, e rispetterò il voto. Ma mò tengo un mal di reni, che solo voi mi potete aiutare” E cominciò a spogliarsi davanti all’attonito nostro eroe, che non riusciva a spiccicare verbo.
“Fatemi stare bene, che v’aggia purtà un sacco di gente. La prima è mia moglie…” Mentre parlava sopracciglia e baffetti, che avevano perso la loro rettilinea immobilità, si muovevano in sincrono in una danza mimica quasi esagerata. Alan li guardava affascinato. “E’ proprio vero – pensò – la vita è movimento

 

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