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LA RELAZIONE PRIVILEGIATA POSTURA – OSTEOPATIA: L’INDIVIDUALITA’ POSTURALE

postura4di Alain Bernard

“I concetti non guariscono le persone, ma la tecnica senza concetti non può pretendere di assurgere al ruolo di terapia” (A. Bernard).

L’osteopatia è un’arte di curare manuale che interviene su delle strutture viventi perturbate nella loro mobilità naturale.
Questi disturbi di mobilità , o disfunzioni somatiche , ostacolano i rapporti “normali” che una qualsiasi struttura deve avere con il suo ambiente.
Questi disfunzionamenti creano delle condizioni favorenti l’instaurarsi di una fisiologia perversa di cui la risultante è l’espressione patologica.
Noi parliamo d’espressione patologica perché consideriamo la malattia un effetto e non una causa. Cio è un effetto di una perturbazione dell’energia vitale e lo stato che noi chiamiamo malattia è sempre la risultante di una condizione preliminare di non-salute.
Comprendiamo quindi che noi non andiamo a curare“la” sciatica ma “una” sciatica perché la relazione causa – effetto è estremamente variabile ed in tutti i casi individuale.
La postura va considerata allora una delle grandi condizioni preliminari che possono favorire l’apparizione di una espressione patologica.
Per esempio la famosa discopatia L5/S1 responsabile di molte situazioni dolorose non ha assolutamente lo stesso significato in un soggetto dinamico (tipo “anteriore”) che utilizza la sua articolazione come starter, rispetto ad un soggetto adinamico (tipo “posteriore”) che l’utilizza come una “poltrona”.
Quindi le modalità di apparizione di una patologia legata alla postura saranno molto diverse, così come i relativi trattamenti, che terranno conto delle diverse relazioni causa – effetto, saranno individualizzati e specifici.
Qualsiasi “ricetta” tecnica preconfezionata non potrà tenere in nessun conto l’unicità della persona da curare.

LA POSTURA

E’ la “fotografia” in tutti i piani dello spazio di un essere vivente, in equilibrio tra cielo e terra, che organizza le sue forze di reazione anti – gravitarie secondo le proprie capacità di gestire l’enorme compromesso tra la stabilità e la mobilità.
Questo compromesso implica la nozione di globalità: niente si mette in tensione, niente si muove, che non agisca su tutto il sistema.
Possiamo immaginare l’uomo come una sovrapposizione di elementi ossei messi in serie: “la catena osteo-articolare”; come per un fabbricato qualsiasi pezzo mal disposto, qualsiasi imprecisione si ripercuoterà   sull’equilibrio meccanico del tutto.
Ma questa catena osteo-articolare è rivestita di muscoli, mono e poli-articolari organizzati in catene, vie preferenziali di trasmissione delle tensioni da un gruppo di muscoli ad un altro.
Un equilibrio delle tensioni tra le catene muscolari coordina l’armoniosa attività della catena osteo-articolare.
Qualsiasi tensione muscolare anomala modifica la fisiologia articolare.
Qualsiasi rapporto articolare non fisiologico modifica l’equilibrio delle tensioni muscolari che vi si applicano.
Tutto questo ci obbliga a parlare di una catena mio-osteo-articolare, solidale qualsiasi sia la predominanza di un elemento su un altro.
Ma ciò che mette in relazione muscoli, ossa , visceri è il sistema fasciale.
Si designano come fascia l’insieme fisiologico costituito dalla totalità dei tessuti fibrosi del corpo organizzati in una rete tridimensionale che prende un’aspetto diverso secondo la localizzazione ed il ruolo che viene chiamata a svolgere:

  • aponeurosi
  • pericardio
  • peritoneo
  • legamenti
  • dura madre, etc.

Ad ogni modo la risposta terapeutica agli effetti di una cattiva soluzione al compromesso stabilità – mobilità non può essere che individuale, perché tale soluzione rappresenta la sintesi assolutamente originale dell’innato e dell’acquisito di ognuno, così che le combinazioni sono infinite ed in continua evoluzione.
“Il paziente di oggi non è più quello stesso che abbiamo visto lo scorso anno”.
Da tutto ciò possiamo già dedurre che l’interesse che portiamo alla statica è limitato.
“La vita è movimento”.
In effetti al momento di mettersi in moto, partendo da cliché statici simili, ciascuno si organizza secondo le proprie ed imprevedibili modalità.
Dunque se si possono in generale determinare degli schemi statici ripetitivi, come in tipologia, niente si può prevedere riguardo alla loro attivazione: la qualità del gesto.
Quindi per individualità posturale si intende più una particolare potenzialità di movimento che una statica foto.
La postura è uno schema corporeo psicomotorio, il cui determinismo è l’azione e di cui il gesto è rivelatore. Qualsiasi trattamento che non tenga conto di questo concetto sarà limitato.
In posturologia classica si considerano i propriocettori come i responsabili dell’organizzazione spaziale dell’individuo, il che è in parte vero, e si cerca di agire su di essi al fine di una riprogrammazione posturale.
Il nostro concetto precedente ci impone delle strategie differenti.

In effetti, propriocettori primari o non, l’organizzazione dinamica potrà rispondere sempre in due modi:

  1. Sia rispettando il determinismo fisiologico dei segmenti, che il soggetto adotta per il suo gesto, partendo da uno schema ottimale (schema anatomico) o da uno schema “storto” ma “ben storto” (schema fisiologico di adattamento – compensazione). E fin qua tutto bene.
  2. Sia inventando in maniera a volte assurda delle fisiologie deviate, dove l’esagerazione di un movimento minore sostituisce nello stesso segmento il movimento maggiore (schema lesionale).

Nel primo caso la sola variazione potenzialmente patologica è nel ritmo.

Le meccaniche di Littlejohn ci indicano dei pivots vertebrali anatomicamente progettati per i diversi movimenti della colonna.

Quando un pivot viene limitato nella sua mobilità determina una ipermobilità di compenso sugli altri, al fine di consentire il movimento.

Nel secondo caso la lesione di fissazione totale o relativa che rischia di prodursi soprattutto se si tratta di zone a “fisiologia multiruolo” (vertebre atipiche) sarà un ostacolo insormontabile a qualsiasi tentativo di riprogrammazione propriocettiva.

Per quello che mi concerne ho sempre considerato le zone occipite-C1 e S/I deputate all’integrità delle strutture nobili sottostanti (salvaguardia dell’anabolismo) a scapito della necessità di movimento relativo.

Questa ambiguità di ruoli spesso provoca delle vere sublussazioni ribelli (care ai chiropratici) che rispondono in realtà alla necessità di proteggere la vita neurovegetativa.

Il movimentò perduto dovrà essere ristabilito in un concetto di posizionamento, tenendo conto della fisiologia articolare in concomitanza con l’effetto locale neurovegetativo, con l’ausilio di tecniche altamente specifiche, dirette, energetiche (alta velocità, asse corto, piccola ampiezza).

Queste riflessioni che vi propongo e che considero essenziali in una strategia terapeutica rappresentano un’evoluzione del concetto posturale.

E’ dunque importante dal punto di vista storico presentare i primi schemi di Hall, che prese in considerazione l’importanza della postura nei disordini meccanici della colonna.

Né si può immaginare l’osteopatia senza gli studi di meccanica di Littlejohn continuati da uno dei miei maestri, Wernham, i cui lavori sono essenziali per comprendere la globalità vertebrale.

Il livello osteo-articolare è ricoperto da un abito muscolare; questo complesso mio-osteo-articolare è ampliato dalla nozione di fascia a tutto l’ambito corporale, da cui scaturiscono l’osteopatia viscerale e craniosacrale.

Difatti l’osteopatia scolasticamente divisa in strutturale, viscerale e craniosacrale, non è che un tutto coerente e globale.

Pur tuttavia l’osteopatia strutturale, sotto la guida dei suoi maestri, è stata certamente la base indispensabile per lo sviluppo delle moderne teorie.

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