In questo episodio della serie “Perchè la nostra osteopatia è più efficace” Dario Vitale spiega perchè l’approccio di EOP è più efficace nel trattamento dei problemi di origine meccanica:
Domanda: Cosa intendiamo per problemi di origine meccanica e perché l’osteopatia di EOP, è più efficace nel trattarli?
Risposta: Quando si parla di problemi di origine meccanica in osteopatia, ci si riferisce principalmente alle richieste di aiuto da parte di pazienti con disturbi muscoloscheletrici come lombalgie, cervicalgie, periartriti di spalla, coxartrosi, e simili.
In osteopatia tradizionale ci si occupa solo della struttura ovvero del sistema miofascioscheletrico e considerando solo i parametri articolari e, al limite, quelli miofasciali come cause dello sviluppo e della persistenza delle varie problematiche meccaniche; usando una similitudine informatica potremmo dire che l’’osteopatia tradizionale considera solo l’hardware.
Noi di EOP teniamo sempre conto anche del parametro propriocettivo cioè degli schemi motori, cioè del software che comanda la miofascia. Trascurare questo aspetto potrebbe portare il paziente a ritrovarsi, dopo breve tempo, con gli stessi problemi meccanici che lo hanno portato dall’osteopata. Questa è la nostra forza!
D: puoi spiegare meglio?
R: In una visione classica, l’osteopatia si occupa delle perdite di mobilità articolari, definite disfunzioni, demandando le problematiche posturali al mezieres ed alle metodiche derivate.Queste ultime a loro volta si occupano della forma, partendo dall’assunto “buona forma uguale a buona funzione” Quindi ognuno di questi approcci si occupa di un solo aspetto del problema, ma entrambe, sia l’osteopatia che il mezieres, trascurano completamente il terzo parametro, vale a dire la propriocezione.
In questo modo chi si rivolge ad un osteopata mettiamo per una sciatica, in poche sedute (se l’osteopata è un bravo strutturalista) viene portato fuori dalla fase acuta.
Poi, se lo stesso osteopata stima che ci sia un problema posturale, manda il paziente ad un mezierista che tratterà il vestito miofasciale rendendolo, diciamo così, più comodo da abitare.
Purtroppo alla base ci saranno, sempre ed obbligatoriamente, degli schemi motori falsati, che senza un intervento adeguato riproporranno le stesse situazioni.
D: Voi di EOP come risolvete questo problema?
R: Alla base c’è stato innanzitutto un grande rivolgimento concettuale, nato dall’esperienza lavorativa di alcuni di noi, che erano sia osteopati, sia mezieristi, e già formati anche nel lavoro propriocettivo, grazie all’insegnamento antesignano di Jacky Renauld.
L’efficacia di questo approccio integrato l’abbiamo trasferito nella nostra formazione, per cui noi adesso consideriamo come disfunzioni, vale a dire perdite di movimento, sia quelle articolari, sia i cambiamenti della forma, sia le alterazioni dello schema motorio che comunque generano perdite di mobilità. Le prime le definiamo disfunzioni articolari; i cambiamenti della forma li definiamo disfunzioni miofasciali, le alterazioni dello schema motorio disfunzioni propriocettive.
E in questa visione tutti questi tipi sono disfunzioni osteopatiche che entrano a pieno titolo nelle competenze dei nostri osteopati, che formiamo, oltre che nell’osteopatia strutturale classica, sia nel lavoro della miofascia che in quello propriocettivo.
Solo lavorando in questo modo, l’hardware – vale a dire le disfunzioni articolari e le retrazioni della miofascia – ed il software, gli schemi motori disfunzionali, si ottengono risultati esaustivi e duraturi.
D: Quindi qual’è la differenza rispetto all’approccio al paziente dell’osteopatia classica?
R: In osteopatia classica vige un assunto che, paradossalmente, allinea questa visione a quella che impera nella medicina di oggi, che vede il paziente completamente passivo nel proprio percorso terapeutico.
L’osteopata “mette le mani” su un soggetto che, senza alcuna partecipazione attiva, guarirà, così come quando prende un qualsiasi farmaco.
Nella nostra realtà di studio, spesso ci troviamo confrontati a situazioni che si sono strutturate nei decenni, sviluppando reti di circoli viziosi che, senza la partecipazione attiva del paziente, sarebbe impossibile rompere.
Per questo, quasi fin da subito, addestriamo il paziente a dei lavori da eseguire da solo che rinforzino quanto facciamo insieme in studio, ritornando all’idea che ha improntato la medicina fin dagli albori: è il malato che deve fare il proprio percorso di guarigione, chi lo cura è solo una guida.